Nel Quarto Vangelo san Giovanni arricchisce il racconto dei fatti storici riguardanti Gesù con elementi altamente simbolici. Quando si legge un episodio come le nozze di Cana, quindi, occorre da una parte comprendere il resoconto di quanto successo e, dall’altra parte, cogliere che cosa è indicato e segnalato da quel fatto, a quale significato, a quale “oltre” esso rinvia. In un certo senso, san Giovanni provoca i suoi lettori a passare dalla cronaca dei fatti al significato e al senso profondo di essi.
All’insegna di una nuova creazione
Già la prima informazione del racconto delle nozze di Cana invita a questo passaggio dal “dato” al suo significato. Il brano inizia offrendo un’indicazione temporale: «Il terzo giorno». Rispetto a cosa si parla del terzo giorno, visto che nei versetti precedenti non è menzionato né il primo né il secondo? In realtà, a partire da Gv 1,19 è possibile contare quattro giorni già trascorsi (in Gv 1,19 dobbiamo dare per presupposta questa informazione; al v. 29 si parla de «Il giorno dopo», come pure ai vv. 35 e 43). Quindi, il «terzo», preceduto da altri quattro, diviene il settimo giorno. Questo dettaglio crea un legame evidente con un’altra settimana famosa della Bibbia, il racconto della creazione in Genesi. In particolare, il richiamo è al settimo giorno, quando Dio cessa ogni attività e contempla la sua opera in modo gratuito. Con questa informazione temporale, che richiama la settimana della creazione, san Giovanni annuncia, in Gesù, l’inizio di una nuova creazione. Quale immagine migliore per esprimere questo se non la festa nuziale, che rappresentava, al tempo di Gesù, la festa per eccellenza?
Il luogo in cui avviene l’episodio, Cana di Galilea, non è conosciuto in altre pagine bibliche. Una località, quindi, senza particolare importanza nella storia biblica. Eppure, c’è un’anomalia: come mai in questa località periferica rispetto a Gerusalemme sono presenti delle giare enormi, che l’archeologia conferma essere tipiche solo del Tempio? Piccolo dettaglio, che tuttavia suggerisce fin da subito la necessità di cogliere il registro simbolico del racconto.
Quale mancanza? Quale pienezza?
I vv. 1-2 introducono i personaggi principali del racconto, accordando un posto particolare alla madre di Gesù, accompagnata alla festa di nozze dal figlio e dai discepoli. La festa nuziale simboleggia, nei testi biblici, l’era messianica, descritta dai profeti come un tempo di pienezza e di abbondanza, di gioia e di festa, in cui saranno serviti vini eccellenti e cibi prelibati (Os 2,19-20; Is 25,6-8; Ger 2,2; Cantico dei Cantici).
Nei vv. 3-5 insorge un problema che dà avvio al racconto: Maria si accorge dell’assenza di vino, mancanza grave in un banchetto nuziale. Come mai la madre di Gesù nota questo? Sicuramente per il suo senso pratico, per la sua naturale predisposizione a prestare attenzione agli altri, alle situazioni della vita, all’interesse partecipe verso ciò che accade attorno a lei. Inoltre, Maria intuisce la mancanza perché possiede già ciò che il vino simboleggia: la gioia, la festa, l’amore, la vita che scaturiscono perché Dio si comunica, viene incontro ad ogni persona per unirsi ad essa in un rapporto nuziale. Dio desidera fare alleanza sponsale con l’umanità e realizza questo attraverso Gesù, le sue parole, i suoi gesti, il suo stile di vita. Dal momento che questa gioia abita in lei, Maria si accorge quando manca negli altri. Siccome questa gioia dona pienezza alla sua vita, subito la madre di Gesù si attiva perché gli invitati, gli sposi, la gente presente al banchetto possano condividere la sua medesima esperienza.
Scoprendo la mancanza di vino, Maria non pensa di risolvere il problema da sola e nemmeno ritiene che se ne debbano occupare gli altri, magari coloro che avevano l’incarico di organizzare la festa. Lei si rivolge immediatamente al figlio, indicando che la soluzione è lui: quando mancano la gioia, l’amore, la festa, l’amicizia, la vitalità dell’esistenza il rimedio sono Gesù e la sua Parola.
La reazione di Gesù alla richiesta della madre potrebbe apparire, a una prima lettura, alquanto scortese o, addirittura, anaffettiva: «Donna, che vuoi da me?». Nel Quarto Vangelo Gesù dialoga con numerose figure femminili e si rivolge a loro con l’appellativo «donna» (oltre alla madre Maria, anche la Samaritana, l’adultera, Maria Maddalena). Questo perché l’evangelista carica la presenza femminile di una funzione e di un significato simbolici: nel contesto dell’alleanza con Dio la donna è il simbolo del popolo. Maria, in questo caso, simboleggia il popolo d’Israele – cui lei stessa appartiene – che attende e genera il Messia promesso e atteso.
Anche la frase «che vuoi da me?» potrebbe tradire una certa insensibilità. Questo, però, dipende dalla traduzione in italiano. Nella lingua originale, invece, la frase suona così: «Che cosa tra me e te?». Questa espressione, in epoca biblica, era la formula con cui si stipulava l’alleanza tra persone. Le parole di Gesù alla madre, pertanto, sono tutt’altro che mancanza di rispetto bensì comunicano l’idea dell’alleanza. Ad esse Gesù aggiunge la motivazione: «Non è ancora giunta la mia ora». Quando, nel vangelo secondo Giovanni, si parla dell’«ora di Gesù» si intende la croce, il momento culminante e decisivo in cui si realizza l’alleanza d’amore tra Dio e l’umanità. Nel dialogo tra il figlio e la madre emerge, quindi, che quando manca la gioia del Vangelo solo Gesù può porre rimedio e la soluzione a questo problema si realizzerà in modo inimmaginabile e insuperabile nel momento della sua «ora», sulla croce, quando l’alleanza nuziale tra Dio e l’umanità sarà sancita definitivamente e in pienezza.
Tra dire e fare
Che Maria non senta irrispettose le parole di Gesù e sia lontana da qualsiasi risentimento nei suoi confronti appare dalla reazione nel v. 5: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela». Questo invito è rivolto ai servitori del banchetto.
Si può notare, innanzitutto, come la madre del Signore sia libera dalla pretesa di inventare da sola un rimedio a ciò che sta compromettendo la festa di nozze. Al contrario, Maria crea alleanze e avvia processi di collaborazione con gli altri in vista di dare soluzione al problema dell’assenza di vino. Ai servitori chiede di fare quanto lei per prima ha già realizzato: fidarsi in modo incondizionato di tutto quello che Gesù dirà per restituire la gioia a quella festa, alla vita di quegli sposi e dei loro invitati. La centralità è accordata alla Parola di Gesù. Nel vangelo secondo Giovanni Gesù è la parola di Dio divenuta carne, persona, storia e avvenimento umani (cf. Gv 1,14). In quanto parola fatta carne, Gesù rende presente nel mondo e nel tempo il desiderio eterno di Dio di parlare ed entrare in dialogo con l’umanità. Il comunicarsi di Dio Padre è fonte e sorgente di vita, abitata dalla gioia. Maria questo l’ha già vissuto nell’Annunciazione, quando ha accolto nel progetto di Dio una nuova forma di fecondità per la sua esistenza. L’invito che lei rivolge ai servi, pertanto, nasce dall’esperienza del primato che lei per prima ha accordato alla parola di Dio e al progetto di vita che essa propone.
Le parole di Maria, in secondo luogo, nascono da una situazione di prova, di mancanza, di assenza. Anziché recriminare, chiedere chi è il colpevole, avanzare pretese fuori luogo, abbattersi di fronte al silenzio di Dio, Maria si fida e si affida al Padre nella certezza che lui non delude. Questa fiducia-affidamento era un suo atteggiamento costante: anche quando non tutto le appariva immediatamente chiaro e comprensibile, Maria ha creduto che Dio volesse sempre ciò che era bene per lei. In un contesto sociale e culturale in cui l’individuo pensa di sapere da solo qual è il proprio bene, la madre di Gesù propone un’alternativa rivoluzionaria: riconosce e accoglie in Dio il suo bene, crede che quanto Dio vuole è il suo bene, confida che Dio dirà una parola capace di trasformare e trasfigurare una situazione fallimentare, chiusa, destinata alla sterilità. Nelle parole rivolte ai servi Maria fa traspirare la sua posizione dentro la vita: lei, in tutto ciò che vive, scopre un dono, un compito, un’occasione per affidarsi al Padre, invece di cadere nella logica dell’impossessarsi, del pretendere, di “farsi da sé”.
In terzo luogo, le parole di Maria consegnano una richiesta molto concreta e pratica: «Fate ciò che Gesù dice». Il senso pratico della madre del Signore smaschera la tentazione di tradurre l’esperienza della fede in semplici buone intenzioni, in vaghe forme di emozioni e sensazioni, in pericolosi e infiniti discorsi, confronti, tavole rotonde, teorie, analisi dei problemi. L’invito a «fare la parola di Gesù» non è nemmeno una sollecitazione a una tentazione altrettanto pericolosa, quella dell’attivismo esasperato, della concretezza svuotata del tempo del silenzio, della riflessione, della meditazione, della preparazione. Come accennato poco fa, le parole di Maria nascono nel contesto della prova e non in quello dell’entusiasmo, dell’esperienza gratificante, dell’improvvisazione dettata da impulsi passeggeri ed episodici. La provocazione a «fare qualsiasi cosa Gesù dica» nasce dal suo stile contemplativo: dinanzi alla realtà complessa in cui vive, Maria cerca di cogliere non tanto come rispondere umanamente ai bisogni delle persone, bensì come il Signore stia indicando, a partire dai fatti concreti, quali siano i bisogni più profondi, le domande più radicali dell’umanità e quali risposte lui desidera offrire e sta già fornendo. Il senso pratico della madre di Gesù traduce lo stile contemplativo in compassione, tenerezza, prossimità, cura, interesse, capacità di creare collaborazione, fiducia. Così lei riesce a non cadere in nessuno dei due estremismi menzionati.
Verso una pienezza donata e riconosciuta
I vv. 6-8 descrivono in modo indiretto il segno con cui Gesù dona una risposta al problema insorto durante la festa di nozze. Le sei anfore di pietra, di una capienza enorme, erano una suppellettile caratteristica del Tempio a Gerusalemme: contenevano l’acqua per la purificazione rituale. Questa informazione, dicevamo, è indizio del simbolismo di questo racconto: perché delle anfore di tale grandezza avrebbero dovuto essere presenti nel luogo di un banchetto nuziale, comunemente consumato in casa? Cosa c’entra, a questo punto del racconto, la purificazione rituale?
Tenendo conto che il sei, nella Scrittura, è il numero della creatura umana – nel racconto di Genesi l’umanità è creata da Dio nel giorno sei – emerge l’idea di una tensione verso il compimento (rappresentato dal numero sette). Tutti questi elementi simbolici convergono nel suggerire che l’esperienza religiosa di Israele – simboleggiata dalle sei giare per la purificazione – è aperta verso il compimento del rapporto nuziale tra il Creatore e la creatura che il Dio dell’alleanza desidera da sempre intrattenere con i suoi figli e che in Gesù, si realizza in modo sovrabbondante.
Gesù impartisce degli ordini, agisce con le sue parole – non con gesti – e muove tutta l’azione. Secondo l’invito della madre, al v. 5, i servi eseguono alla lettera ogni parola di Gesù. Nel fare questo, accade una trasformazione di cui si può solo constatare l’effetto, senza vederne la realizzazione e il compimento – il cambio dell’acqua in vino non è nemmeno raccontato ma lo si conosce solo dalle parole di stupore del maestro di tavola.
Nei vv. 9-10 è confermata la qualità sovrabbondante e straordinaria di quanto accaduto, attraverso le parole del maestro di tavola, che interroga lo sposo, senza che questi abbia una spiegazione plausibile da offrire. Anzi, si vede rimproverato per un modo di fare atipico nei banchetti nuziali del tempo, in cui si cominciava la festa offrendo il vino migliore e poi, pian piano, passando a un vino di qualità inferiore. Prassi alquanto discutibile, se interpretata alla luce del simbolismo giovanneo in questo racconto, in cui è in gioco il rapporto religioso con Dio. Solo i servi conoscono tutta la vicenda, fin dall’inizio e sanno che quanto accaduto deriva da una catena di reazioni a una serie di parole (quelle della madre prima e quelle di Gesù poi): nuovamente il racconto pone l’accento sull’importanza di accettare con fiducia la parola di Gesù.
Collaboratori della sovrabbondanza
Il commento conclusivo del narratore (v. 11) termina il racconto. Si dice: «Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui». Il termine «inizio» è espresso, in greco, con un vocabolo che assume due sfumature di significato: (1) inizio nel senso di primo di una serie di sette segni che saranno raccontati; (2) modello grazie al quale è possibile comprendere tutti gli altri segni. Vale a dire che il significato di questo episodio deve essere applicato anche ai successivi segni che saranno raccontati nel Quarto Vangelo. Per comprendere in che senso le nozze di Cana siano il modello di tutti gli altri segni, occorre capire che cosa intende Giovanni con il termine «segno». Il segno è un codice che indica qualcos’altro, rimanda a un oltre. I segni giovannei esigono di essere compresi, si potrebbe dire, non al “primo livello” (che cosa raccontano) ma al “secondo livello” (che cosa indicano).
Il racconto delle nozze di Cana indica la gloria di Gesù. Quando la Bibbia parla della gloria di Dio fa riferimento al suo splendore visibile dentro gli avvenimenti storici: la gloria di Dio è la sua presenza operante e portatrice di amore, di misericordia, di bontà. Questa presenza opera incessantemente la nuova creazione dell’umanità e si adopera per una nuova relazione tra il Creatore e la creatura che abbia il gusto della festa nuziale, della gioia. In questo episodio Gesù, rispondendo alla madre, precisa che la sua gloria è strettamente legata alla sua «ora», ossia la croce. È in Gesù crocifisso che è possibile contemplare la presenza gloriosa di Dio Padre che comunica all’umanità una volontà di amore nuziale capace di spingersi fino all’estremo, in un modo così sovrabbondante e inimmaginabile di cui le nozze di Cana sono solo un segno.
Nell’abbondanza straripante del vino della gioia la Chiesa è invitata a riconoscere il segno dell’abbondanza straripante dell’amore del Padre, risplendente nella gloria della croce. Alla Chiesa è consegnato il compito di testimoniare e annunciare la sovrabbondanza eccedente della gloria di Dio che invade la storia e riempie l’esistenza delle persone. Continuare a servire il vino della gioia del Vangelo è l’impegno missionario affidato alle comunità cristiane: la gloria di Dio è che l’umanità viva, il Padre è glorificato quando l’umanità abbraccia la gioia di cui il Vangelo è sorgente e meta.
don Andrea Albertin, docente di Sacra Scrittura